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Come Coppi


La morte di un campione.

Due righe come due coltellate. Due righe, quelle battute disperatamente da un’agenzia di stampa, l’Ansa, che troppo spesso confondiamo per scherzo con ansia, che ti tolgono il respiro, che ti cambiano la vita, e la scippano anche a te. Due righe, ma se ci pensi bene ne basterebbe anche una solo, che ti rispediscono con i piedi per terra e con il cuore in mano. Due righe che bloccano l’Italia, la paralizzano, come un Superman di quelli costretti a sopravvivere su una carrozzina e a esprimersi lanciando fiamme e fulmini, vampate di calore e pioggia di lacrime, ma solo con gli occhi.

Quelle due maledette righe delle 22.42, trasformate in un mazzo di sillabe in tv, e ingigantite fino alle 70 righe di questo pezzo, e alle pagine e pagine che ne seguiranno quando le nostre anime avranno cercato di capire e non avranno capito, avranno cercato di dimenticare e non avranno dimenticato, avranno cercato di difendere, attaccare, giustificare, criticare. E invece potranno solo ritorcersi su se stesse, con quei "se solo", con quei "se invece", con quei "se allora", che valgono come mazzate, come altre coltellate, come altri assassinii.

Marco Pantani è morto. Ed è una tragedia più terribile di qualsiasi morte si possa immaginare. O forse no. Perché ci sono altre due momenti che hanno paralizzato l’Italia e le nostre anime, anche ad anni di distanza, e non a caso hanno violentato lo sport: l’aereo del Grande Torino schiantato sulla collina di Superga, il 4 maggio 1949, e l’ultimo respiro di Fausto Coppi su un letto dell’ospedale di Tortona, il 2 gennaio 1960. Il Grande Torino in una giornata infame, la nebbia che nasconde il lutto, il passaparola che giunge dolorosamente ai superstiti. E Coppi in una mattina livida, la neve che immobilizzava anche i cuori, e i suoi gregari Carrea e Milano già trasformati in angeli, forse perché il Campionissimo non si accorgesse della differenza fra Terra e Cielo. Se chiudi gli occhi, sei assalito da altre morti-simbolo: Tommy Simpson, il corridore inglese, scioltosi sul Ventoux, o Gianluca Signorini, il capitano del Genoa, disintegratosi nei muscoli. E poi l’orrore dello stadio Heysel, a Bruxelles, il 29 maggio 1985, con 39 vittime sacrificali. Come un 11 settembre: tutti si ricorderanno esattamente dov’erano, cosa dicevano, con chi stavano nel momento in cui hanno saputo che Pantani è morto.

Marco Pantani è morto, e forse era già morto il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, al Giro d’Italia, quando l’avevano beccato con l’antidoping. O forse è morto una seconda volta il 30 maggio 2003 alla Cascata del Toce, sempre Giro d’Italia, quando se n’è andato con uno dei suoi scatti in salita. Solo che era uno scatto breve, debole, fragile, esangue, anemico, vuoto, e gli altri sono andati a prenderlo. O forse è morto il 1° giugno 2003 a Milano, alla fine di quel Giro d’Italia, quando senza dirlo a nessuno se non a se stesso, aveva già deciso di mollare tutto, abbandonare tutto, lasciare tutto. E ha fatto così, Marco Pantani. Ha mollato, abbandonato e lasciato tutto, e alla fine di tutto, ha mollato, abbandonato e lasciato anche se stesso.

Ciascuno di noi ha il suo Pantani. Pensi a quella scritta sull’asfalto, "Dio è pelato", fra Sassuolo e Maranello. Pensi a tutte quelle volte in cui la gente, sulla strada, ti gridava "Pantani", Pantani a te, vestito un po’ come lui, ma infinitamente più pesante e goffo. Pensi a quella volta in cui ti ha sussurrato: "Inutile avere una bici leggerissima, se ti porti nell'anima un corpo che pesa come un macigno". Pensi a quella volta in cui ti ha confidato: "Io scatto in salita per rendere più breve l'agonia". Pensi anche a quella volta in cui hai detto: "Ho fatto il gregario: per poter chiedere agli altri, devi anche essere capace di dare". E quel suo "il doping è un problema etico: è come convincere tutti a pagare le tasse quando non le paga nessuno", che fino a un attimo fa ti sembrava solo una battuta di spirito, adesso ti gela come uno spirito battuto. Ripensi ai suoi gregari-amici, da Conti a Clavero, da Fontanelli a Codol, che lo proteggevano con quella modesta semplicità di chi è abituato a non esibire mai i propri sentimenti. Pensi "se solo", pensi "se invece", pensi "se allora". Pensi che qui è un inferno, che non è giusto, che non si fa così, che prima si scrive una lettera, si dice ciao, si fa così con la mano. Pensi che così non vale.

Pensi che lo sport non meriti queste due maledette righe. Perché lo sport è vita, e non è morte. E’ ridere, e non è piangere. E il copione non dovrebbe prevedere camere di residence, confezioni di medicine, solo come un cane.


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