Sezione dedicata al grandissimo Pirata.
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Adesso verrebbe soltanto da piangere e ricordare emozioni che pochi campioni hanno regalato. Adesso verrebbe da picchiare un pugno contro il vetro, come fece lui quella mattina a Madonna di Campiglio. Adesso sembra cinico affermare che l’addio di Marco era inevitabile. Ma è proprio così. Il ragazzo di Cesenatico aveva imboccato una via senza fine. Lo aveva fatto più o meno consapevolmente. Lo aveva fatto perché fin da quando ha dato il suo primo respiro è sempre stato incapace di convivere con la normalità.
Marco se n’è andato. Non è ancora chiara la dinamica dei fatti. Ma tutto fa pensare che, ancora una volta, abbia scelto lui. Proprio adesso che una nuova stagione del grande ciclismo stava alzando gli ormeggi. Senza di lui.
La sua parabola umana, come quella di atleta, è una parabola che un giorno ha preso la china discendente. Prima lentamente. Poi di colpo.
Adesso sembra cinico, quanto facile, affermare che l’orologio della sua vita si è rotto il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio. Il giorno in cui Marco ha visto entrare papà Paolo, detto Ferdinando, nella sua camera d’albergo. E ha capito che era tutto vero. Che il suo film era diventato tutto nero. Staccata la spina. Buio. In quel momento Marco si è rivisto bambino, di fronte alle difficoltà della vita più grandi delle montagne che scalava come nessun altro. In quel momento ha tirato un pugno a un vetro e la sua vita è cambiata.
In questo momento non è importante capire come è arrivato a quell’esclusione. A quel pugno contro il vetro che in fondo era anche uno specchio. O forse lo sarebbe, ma non cambierebbe quelle due righe dell’Ansa, delle 22.42, gelide come la morte: «Il ciclista Marco Pantani è stato trovato morto questa sera in un residence di Rimini».
Da quel giorno Marco non ha passato una sola notte della sua vita senza pensare a Madonnna di Campiglio, senza far riferimento a quel momento in cui la sua vita è uscita fuori pista. Ce lo ha ricordato qualche settimana fa suo papà Paolo detto Ferdinando. «Si svegliava di notte e gridava: Campiglio! Ingiustizia!». Marco non ha mai saputo liberarsi si quel peso. Gli sarebbe bastato ammettere a stesso un errore. Gli sarebbe bastato raccontare tutto quello che succedeva dentro e intorno a lui. Avrebbe dovuto liberarsi di quel peso che invece è diventato ogni giorno più grande.
Invece si è infilato in un tunnel dal quale non è più uscito. In mezzo ci sono stati anche due processi, quello di Forlì, dove era stato condannato per tre mesi, poi annullati nell’appello di Bologna, e quello di Trento, dove era stato prosciolto perché la legge (frode sportiva) è inapplicabile. Le vicende di doping e dintorni non lo hanno più abbandonato. Marco non era il peggio del gruppo. E’ solo quello che ha pagato di più. Il ragazzo di Cesenatico era comunque tornato alle corse. A più riprese. In certe giornate, come a Courchevel, nel Tour de France del 2000, è sembrato di nuovo lo stesso grande, immenso Pantani del 1998. Quel giorno piegò anche Lance Armstrong. L’americano, dopo la polemica del Mont Ventoux, non avrebbe voluto farsi battere da nessuno. tanto meno da Pantani. E prima c'era stato il Giro del 2000 e lì si comprese che tipo di fenomeno era l’atleta Pantani.
Arrivò a Roma, per stringere la mano al Papa con quel suo sorriso laser, e 15 giorni (esattamente 15) di allenamento. Finì per essere decisivo per la vittoria finale di Garzelli e avrebbe potuto conquistare la tappa di Briancon. Il Tour non l’ha più, ingiustamente, invitato e l’ultimo Marco in bici lo abbiamo visto al Giro d’Italia 2003. Un Giro che ha portato a termine, al 14° posto, con grande dignità pur essendo soltanto l’ombra di se stesso. Quel quinto posto sullo Zoncolan, sembrava il presagio di un crepuscolo della carriera ancora ricco di soddisfazioni. Sembrava.
In realtà Marco non poteva convivere con la mediocrità. Non avrebbe mai accettato di essere il 14° di niente. E così, pochi giorni dopo finì in una clinica per curarsi dalla depressione e da qualcos’altro che non si è mai detto, ma aveva a che fare con i paradisi artificiali. Pantani è riemerso e si è rimesso in bici a fine luglio. Ci ha provato ancora alle soglie dell’autunno. Ma la sua mente e il suo fisico erano minate. Molti lo hanno abbandonato. Molti lo hanno trattato male. Molti però gli sono stati vicino. La famiglia, prima di tutto. Seppur tra varie burrasche, Papà Paolo, mamma Tonina e la sorella Manola vivevamo per lui. Da loro era stato a Natale. Da loro si è allontanato recentemente come per prendere lentamente le distanze dalla vita.
Gli è stata vicino Manuela Ronchi, che lo ha ospitato a Milano, a casa sua, anche recentemente. Gli sono stati vicini alcuni amici, come Andrea Agostini o come Michel, che lo ha ospitato nella seconda parte del 2003 sperando di riuscire a tirarlo fuori da quel buco nero nel quale si era infilato. Gli sono stati vicini i tifosi, i particolare quelli che ogni giorno parlavano di lui con grande coscienza nel sito internet. Gli volevano scrivere una lettera aperta. Ora ogni parola resta sospesa. Nell’inverno Marco è stato combattuto tra la voglia di tornare in bici e la voglia di mollare tutto. Ma proprio tutto. E andato a Cuba, ha incontrato anche Maradona. E soprattutto dal secondo viaggio, nel quale ne ha passate di tutti i colori, è tornato distrutto. Fisicamente e spiritualmente.
Chi lo conosce bene ha raccolto confidenze devastanti. Marco era un uomo che stava allontanandosi dalla realtà. Due settimane fa, era sparito. Esattamente sparito per 5 giorni. Nessuno sapeva più dove fosse finito, finchè si è fatto vivo con una telefonata da un albergo di Milano. Gli avevano proposto di rientrare in clinica. Volevano che si curasse. Marco però aveva già staccato i ponti con tutti. I genitori erano partiti per la Grecia. Michel e Manuela Ronchi non avevano più ascendente su di lui. Pensavano che fosse a Saturnia, dove il ragazzo di Cesenatico aveva fissato un suo porto quiete. E invece era in un residence di Rimini a dare le ultime pedalate. Verso la morte.
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